La ideazione di Umberto Albanese parte sempre dalla concezione di struttura, dal rapporto delle parti col tutto e dalla interrelazione dei nuclei dell’insieme. Partiture, specchiature cromatiche, paiono connesse da un segno netto, piceo, come in un puzzle, una costruzione musiva.
Quadrati, triangoli, ocelli, ovuli e altri segni geometrici si contengono nel reticolo generale, suturati saldamente. Poi le particelle si dissaldano, si collocano nello spazio del fondo unitario, come per una volontà liberatoria, in un gioco combinatorio nel quale gli interspazi si punteggiano di una grafica minuta, sottile, che profila elementi edilizi o naturali. Ma sempre è sotteso il principio dell’insieme. Come un trapunto di una segnica quasi impercettibile, di raccordo, per una tenuta complessiva. Questo nel piccolo formato, dove i segni si infittiscono. Cresce l’ornato, pullula come un corteggio, una suite fiorita, giubilosa, varia e convincente. Elementi vaganti in una cellula biologica, cenosi di una flora fantastica, ramificante.
Ne esce un senso nuovo di armonia, di ritmo circolatorio lento, controllato, ma espressivo. Con un’aria di incanto, di stupore, di contemplazione di zone e di segni tracciati come per un impulso della memoria con il desiderio di tutto abbracciare in una visione d’insieme.
… Per Umberto Albanese il sentimento della pittura si identifica nel sentimento della natura.
Il colore è messo sulla tela con pennellate che determinano la costruzione spaziale, segno di ordine e di sicurezza che derivano da una pulizia mentale e evocano sentimenti “veri” di origine elegiaca.
L’arte, cos’è l’arte, ci si chiede senza risposta ogni volta che bisogna testimoniare su un artista, o anche vederne le opere. Il termine parallelo poesia, come verrebbe in mente dovendo fermare attenzione e sentimento sui quadri di Umberto Albanese, dice, lo stesso, tutto come niente. Un’altra parola, popolare ed efficace, ma anche aristocratica e rara a penetrarla, è magia. Forse questa parola accomuna pensiero e poesia, intesa, si intende, fuori dall’uso comune, che ne ha sciupato il significato. Magia, dinanzi ai quadri di Umberto Albanese, sembra appropriato, anche se non globalizza l’emozione e le meditazioni che questi quadri possono provocare, ovviamente secondo del come e da chi le opere vengono viste. Magia nel senso di scavo nella ragione, nella poeticità della fantasia, e nella ricerca del vero, sino all’impossibile. Un termine per i dotti da Kabalah, per i profani da discesa nell’inconoscibile però con speranza e possibilità di riuscire a vedere oltre la frontiera del visibile. Del resto, i “magi” erano una unità tra medico-filosofo e filosofo-profeta. Medicina e poesia, una misterica combinazione tra realismo e verità nascosta.
Cosa è, dunque, l’arte, riferendosi esplicitamente ai quadri di Albanese, perché la premessa interessa direttamente lui? Nella notizia biografica per le sue mostre si tiene ad informare che è anche medico. Spiega diverse cose, sapendo che è uomo di scienza del corpo, e simultaneamente vive nella vocazione di pittore. La sua pittura, sì, è magica.
Sapienza e intuizione sono alla base del suo viaggiare sulla superficie dove sorgerà il quadro, in cui calamita l’attenzione del visitatore, che passa dall’attenzione alla gioia ed alla paura, anche simultanee, in liberatoria librazione, in un alto che è profondità, pur nel sotterraneo della Psiche. Umberto Albanese, al suo primo apparire dinanzi alla nostra visività esteriore, già aggredisce per restare poi entrare in noi. Lo fa con la strategia più dolce possibile: la virtù del poetico.
La pittura, in ciò assolutamente fraterna alla musica - ed Albanese ne è consapevole quando dipinge - si eleva ad arte, salta il fossato rituale della decorazione, quando scattano nel suo essere significati polivalenti. Un quadro è quello che è: un dato paesaggio, un volto con quelle esatte caratteristiche, un ritratto, un albero, un qualche cosa del visibile, oppure da esso derivato, come è per l’informale e gli astrattismi. Sempre questi derivati da immagina- zioni del concreto, nascosto. Ma un quadro deve anche essere quello che non appare, per salire di livello. Umberto Albanese salta il primo livello, entrando nelle polivalenze poetiche dell’arte. Quando essa è arte!
Sulla polivalenza di significati e di rappresentazioni circa la pittura del nostro artista, l’evidenza è chiara. Questa fantasia di case, luci, castelli, porti, azzurri-laghi dentro la città, golfi e vele, e queste triangolazioni che possono sembrare ed essere segnalazioni di Eros creante come di pini natalizi, anche questo segno di natività, tutta questa fantasia evoca ciò che non esplicitamente appare. In questo e per questo, Umberto Albanese è pittore che avverte e segue la divinità magica che fa nascere dall’uomo le forme della poesia, per lui la pittura.
C’è perfino un risveglio Kafkiano nel tessuto lirico, e mistico, del dipingere di Albanese. Nel senso che tutto questo continuo presentare le forme dell’abitare umano, alla fine sem- bra dire che, nonostante tutto, l’uomo non ha requie. Il Castello resta chiuso, nonostante tutto sembra essere il Castello. Le luci sono presenza inebriante nei quadri di Albanese. Sono fiammelle dantesche. Sono pioggia di manna su un immenso abitato che è anche solitudine. Sono grazia di Dio su di un mondo in cui l’uomo indirettamente appare ed è nasco- sto nelle case. C’è una geometria di pensiero in questa pittura, calcolata nel pensarla, e poi (li getto liberata sul quadro in un’esecuzione che dovrebbe essere anche felicità fisica. Il fare pittura con amore. La pittura amante, nella ritualità quotidiana, anche. In tal senso il fare arte diventa strada della serenità come conquista.
O sono questi tasselli di colore, che piovono dai cieli, e si fermano su un filo steso, sono i nostri vestiti come nascondiglio, le nostre lenzuola? In alcuni quadri questo realismo narran- te, altra qualità del pittore, è evidente. Pure in tale realismo questa pittura si trasferisce dinanzi a chi la gode in una folla di simboli, da cui ognuno sceglie il proprio. Come una adozione visiva, di un mezzo su cui viaggiare. Un panno, giallo, bianco, verde, blu può diventare tappeto volante da staccare, su cui saltare, andare.
Sempre di più, entrando nella pittura di Albanese, ci rendiamo conto delle sue capacità magiche, tra Orfeo occidentale e i Tre Magi orientali. Venti contrastanti verso l’unità, come la civiltà culturale, ecumenica, che viviamo. In Albanese i risultati, lui nato e cresciuto in una Italia meridionale-orientale dove gli incroci dei misteri sono da secoli e secoli fattori di lievitazione continua, pur se non consapevoli, agiscono fattori sotterranei. Formano la sua pittura. Varrebbe perdersi, ma l’operazione è possibile nella conta dei segni che a volte affollano il quadro ditale pittore, fitto di elementi segnici. Forse otterremmo una cifra, sconosciuta allo stesso autore, che potrebbe rilevare e rivelare una componente magico-numerica. Altra via, per viaggiare nella polivalenza di questo autore. Torniamo sempre alla positiva sensazione di arte con poteri magici, descrivibili ed invece anche indescrivibili. Una simile situazione può portare avanti, sulla strada dell’invenzione del segno e dei significati, un artista che la vive tanto spontanea, con padronanza di mezzi, nella misura e nel dominio. Certo, fermarsi in tempo giusto nella stesura del quadro, per evitare una abbondanza di disturbo, è qualità su cui lavorare, a volte anche sacrificando la voglia di dire tutto in uno stesso quadro. Fenomeno che potrebbe anche accadere, che però resta nelle ipotesi non controllabili dall’esterno. L’artista stesso, lui solo, sa dove e come può arrivare a fare centro esatto.
Umberto Albanese ha strumentazioni tecniche di portata moderna. La sua sensibilità, aiutata anche dall’essere uomo di scienza, lo porta ad analizzare, selezionare e decidere le tecniche e il loro uso, secondo il dettato intimo di madre poesia. La stesura di alcune sue opere, un intero ciclo, lo porta a considerare la stratificazione materica del colore sul piano da cui trarre l’immagine. Il graffiare la materia per ottenere la linea, il rilievo, il profondo, sono utilizzati con sicurezza. Non è qui il caso di una analisi della possibilità tecnica di questo artista, che sa come arrivare alla conoscenza e all’uso di ogni intuizione operativa: lui che è un ricercatore sulla materia in assoluto di nostra diretta conoscenza: il Corpo umano, che è anche anima se deriva da un’immagine di Dio. Quel corpo che avvertiamo sotterraneo alle
mille e mille luci delle notti e dei giorni raffigurati da Albanese.
Per adesso, è un momento di attesa, per questo pittore. Umberto Albanese merita altre analisi. Va nella sua pittura goduto, ognuno trovandoci il suo filo di vita, a cui appendersi e su cui viaggiare. Desiderio da favola? No, se interroghiamo il realismo della nostra Psiche.
La prima volta che ho visto le opere di Umberto Albanese ho avuto la netta impressione di trovarmi di fronte ad uno dei rari artisti capaci ancora di godere della gioia della scoperta, di abbandonarsi all’estasi sensoriale senza il solito compiacimento, senza allusioni sessuali troppo nitide per essere fraintese. Un artista che non si appaga della sua arte come sostituto della vita, ma che da quest’ultima trae linfa vitale per il suo lavoro, che in essa si radica tanto profondamente e ad essa si abbandona: ombelico del proprio mondo, mater generosa.
Eppure della realtà di ogni giorno non c’è poi molto ad un primo apparire nei quadri di Albanese, dominati come sono dal colore: una materia dai cromatismi nitidi, chiamati a raffigurare un mondo di antiche certezze e di perduti valori, di quelli capaci di salvare l’uomo dal naufragio dell’alienazione. Ricordi e colori, colori e ricordi che riaffiorano alla memoria in macchie di luce; luoghi della memoria e del sentimento ricreati dai campi cromatici più che attraverso vere e proprie forme, una realtà intima, personale che sa però farsi collettiva nell’attingere al mito, al costume, alle tradizioni. In questo senso le spiagge e le marine del meridione sono più di una allusione, le vele, il gioco di colori del borgo, gli arabeschi di luce di così chiara ascendenza orientale dovuta al confronto con le presenze moresche del sud appaiono evidenti rimandi al proprio vissuto. Tanto che sembra non esserci posto nel mondo di Albanese per ciò che sta al di là della soglia della conoscenza, come se non fosse raffigurabile: le cose qui vivono solo dal momento in cui l’artista le scopre, le penetra e quindi le può rappresentare connotandole con il colore. Colore dunque che partecipa tutto, chiamato anche ad assumere funzione narrativa, accompagnato talvolta dalla presenza di un graffito che qui più che tecnica appare urgenza emotiva, necessità di arricchire il racconto di dettagli, frammenti di un discorso amoroso: quel profondo amore che lega indissolubilmente Albanese alla sua arte e la sua
arte alla vita stessa.
La mostra di Umberto Albanese (Leva Giovane, nato a Casarano in Puglia, dove è cardiologo) ripropone il rapporto tra professione vissuta quotidianamente, o almeno iniziata in giovinezza (Come Carlo Levi) e la loro insopprimibile vocazione per l’arte. Perchè? C’è un rapporto serio, concreto. Umberto Albanese, già presente in gallerie qualificanti come la “Vittoria” in via Margutta, è sicuramente solo pittore, nel senso che potrebbe anche non svolgere la sua professione, ed essere solamente artista. Vocato. Però c’è una aggiunta che, per un medico, ha valore antico e insieme moderno. La pittura diventa terapia visiva.
Burri (noto, nel mondo, pittore-medico) un giorno mi disse: “La pittura può aiutare a guarire attraverso gli occhi”. Era la stagione del suo colore puro, persino il sole nero, sulla tela. La stessa presa visiva offre il geometrismo fantasticato, ed esatto, di Breccia, già affermato cardiochirurgo.
Umberto Albanese entra in tale schiera, misteriosamente avanti tra pensiero e medicina. Tali dovevano essere i Re Magi davanti alla culla di Betlemme.
Albanese a Firenze riespone nella prestigiosa “Ken’S Art Gallery”. Via Lambertesca 7. (Tel. 055-2396587). La sua pittura è calata in una visività che simultaneamente, è celeste. Eppure è anche orizzontalità di paesaggismo. Le geometrie sono esatte e insieme fuggenti: come pensiero fantastico. Con una conclusione che restituisce la realtà al sogno. Vibrazioni oniriche diventano luogo di residenza. L’insieme produce necessità di viaggio. Dove? Ovunque noi per urgenza fisico-spirituale dobbiamo andare. Da qui parte l’analisi di pittura come terapia. Ma tutta l’arte, se tale è, è medicina a potenziale assoluto.
La pittura di Umberto Albanese è basata sul ritmo e sul colore. Una geometria non rigida delinea personaggi ed oggetti, forme non pienamente comprensibili che non diventano mai storie e nondimeno accennano a stati d’animo ed a pensieri…
…Ogni suo quadro può così essere immaginato come un particolare di un quadro più grande ed anzi tutti i suoi quadri, posti in successione, possono esser intesi come le pagine di un diario, le diverse impressioni di una sola anima. Ci fortifica in questa opinione osservare che Albanese raccoglie le su opere in cicli ed affronta più cicli in un solo anno: proprio come fanno gli scrittori nei capitoli di un feuilleton…
Kindinsky definì il colore come la via maestra che conduce all’anima: “Il colore - scrisse - è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde; e l’artista è la mano che toccando questo o quel tasto, mette preordinatamente l’anima in vibrazione”.
La lezione del fondatore del Blaue Reiter non deve essere sfuggita ad un pittore dei nostri tempi: Umberto Albanese. Le sue composizioni primitiviste e ricche di pathos, ben ricalcano quei paraJigmi secondo cui arte è soprattutto “principio della necessità interiore”; un concetto caro agli espressionisti ma che nella lezione del maestro russo assunse quei caratteri “lirici” che molto influenzarono la pittura sia astratta che figurativa. In questa meditazione estetica, ritmo, colore e “musicalità” della forma diventano i veri protagonisti del quadro su cui si alternano gli archetipi della natura, del regno animale, di quello vegetale e degli universi stellari.
Un mondo di sogni fantastici in cui si immerge volentieri Umberto Albanese, che propone un’iconografia primitiva e a tratti infantile, dove forme arcaiche simili a geroglifici si susseguono in una sorta di giocoso pentagramma.
… Qui, come su uno schermo di proiezione, aggallano a frotte segni criptici, presenze che tendono a rappresentazione di un’intima inseguita verità esistenziale. Il colore quindi appartiene, oltre che al quadro, quale principale abitatore, anche alla poetica stessa dell’artista, perno attorno a cui si costruisce e cresce il visibile di quella segreta e riposta visione…
D’altronde la presenza dell’oro che è luce, la più immateriale delle sostanze, suggerisce il riferimento alchemico. Alchimia del colore e della materia pittorica, perchè Albanese non attinge certo all’universo dei simboli alchemici, ma nel senso di un processo artistico che porta appunto alla sublimazione della materia, fino alla sua decantazione in costellazioni senza peso…
Umberto Albanese dopo essersi manifestato come apprezzzabiissimo pittore del genere figurativo, si tuffa ora nella sua interiorità, privilegiando quella realtà intima che è il vissuto, ovvero il nostro animo. Nelle opere dove predominano i colori scuri, dove è presente il segno che incide e sembra quasi squarciare, l’artista sembra porre, in una sorta di “trance vigile” il “lutto”, ossia il disagio dell’essere, dell’esistere, il rapporto conflittuale tra se stesso e la realtà.
La pittura di Albanese è fatta di simboli, segni criptici, archetipi, e a tratti sembra recuperare il mondo dell’infanzia.
L’opera del maestro salentino è provocatoria, e riesce a stimolare l’attenzione; ci conduce per mano, ci invita a confrontarci fino a trovare in ognuno di noi quei comuni denominatori che rappresentano l’esternazione anche di simboli più visibili, non solo strettamente cromatici. Vedremo allora la barca, il castello, segni appena accennati che ci narrano delle aspettative e dei sogni che ognuno cela nella propria intimità.
Nella pittura di Umberto Albanese sono ben visibili i riferimenti alla pittura di Klee o anche all’area del surrealismo, ma nuova sicuramente è la loro rielaborazione e combinazione con le poetiche del segno e della materia in una formulazione affatto originale nella quale riacquista senso anche il processo esecutivo.
Per spiegare quel suo modo di svolgere a cicli tematici la sua ricerca poetica è stata utilizzata, come si è visto, l’immagine del diario, cioè la sua pittura così ordinata è stata considerata una sorta di diario intimo, immagine che ha una sua indubbia efficacia, ma che nel caso specifico, rischia di non fare intendere il significato pieno della sua opera.
Come ogni artista anche Albanese non ha potuto e non può fare a meno di trasferire nelle sue opere il proprio vissuto, ma gli si farebbe un torto se si guardasse alle sue opere come ad un puro sfogo intimista.
The artistic path chosen by Umberto Albanese is quite a bit unusual.
A professional cardiologist by training, always in love with painting. Umberto Albanese has nurtured his passion alongside his medical career. His painting reflect his joy of being a man as well as an artist. The colours that gush out are alive, mediterranean (Umberto Albanese was born in the region of Puglia, in Southern Italy), his reds, bleus an yellows are unforgettable, by whose means he expresses the research and meditations done by the artist.
Research: never was a word more fitting to the case than this since, through painting, Umberto Albanese continues to apply his scientific eye over humanity, exploring the inner worlds of interiority and memory. His technique becomes then experimental, the colours become metallic, almost lunar, while mysterious and archaic symbols materialize on canvas. Umberto Albanese is a painter which ought to be discovered and the Social Economic Committee of the United Nations is pleased to introduce him to the Geneva as well as to the international community, which will reserve him a warm and enthusiastic welcome.
Le monde d’Umberto Albanese me divertit. Il me fait penser aux gymnopédies d’Erik Satie, à l’univers de Matta, aux exercices de style de Raymond Queneau. Un magnifique divertissement où l’abstraction est une conquête réjouissante.
Quand Cezanne disait qu’il voulait unir les courbes de femmes aux épaules des collines, il faisait de l’art le pivot de l’existence. Umberto Albanese est un maître des formes et des couleurs, un merveilleux démiurge qui fait de la peinture cet art universel qui ni patrie ni identité.
Umberto Albanese est une personnalité attachante, Maître incontesté d’un monde complexe mais si magnifique de l’art du XXI siècle.
… Nella gran parte delle composizioni, eseguite a tecniche miste su carta e medium-density, si percepisce un’immediata visione di tracce e campi policromi stesi nei modi astratto-informali, ma che consentono di cogliere, a una osservazione più attenta, repertori segnico-figurali tratti da un alfabeto cifrato, arcaico oppure da un repertorio che assume il sapore dei primitivi graffiti…
…Una pittura che scorre, feconda, seguendo cicli tematici, tra affioramenti di provenienza mnemonica o di natura onirica, spunti scritturali fantasiosi di spirito ludico-infantile oppure di sapore arcaico, vivificati per via di un infinito trascinamento di punti direzionati ben oltre i contorni della superficie, inserti cartacei disposti liberamente e pur ben organizzati negli equilibri compositivi, gestualità istintive che corroborano l’immediatezza comunicativa segnico-materica e una tavolozza ampia, mai ferma a indugiare su preferenze di colore e tanto meno casuale ma con ragionate motivazioni della sua esistenza, come asserisce l’artista stesso. Ciononostante la componente che prevale, più di ogni altra cosa, sulla complessa rielaborazione tecnico-operativa è indubbiamente quella lirica che da pregnanza estetica a questi suoi componenti poetici non verbali, che oltrepassano ciò che la parola non può esprimere e attraverso cui Umberto Albanese dà sfogo alla verve creativa della sua anima…
…guardando queste «opere recenti» di Albanese, ben oltre l’immediatezza di quella che potremmo definire la magia del colore nel continuo determinarsi di orditi e trame, come in una metaforica tessitura della fantasia, abbiamo avvertito ancora una volta la percepibile affinità tra pittura e musica, richiamando alla mente certe affermazioni goethiane e ancor più, ma sempre all’interno della succitata relazione, quanto Kandisky ed Itten avevano scritto sul linguaggio delle forme e dei colori. E queste opere, con quei titoli che citano il silenzio, la memoria, il viaggio e il labirinto, e con quel loro relazionarsi, solo apparentemente casuale, di forme e di colori, di lampi luminosi e di vibrazioni perfino al limite del monocromatico talvolta, ci sollecitano due contemporanei e suggestivi percorsi di lettura: uno psicologico-cognitivo ad ampio coinvolgimento ed un altro psicoanalitico che attinge alla vita stessa dell’artista, al suo diario, ai suoi sogni, filtrati entrambi, però, attraverso l’iconologia e la psicologia della percezione.
Ed è cosi che nella ricorrente gestualità del segno e nei ritmi della pittura, tra silenzio e memoria, riemerge quella musicalità che giunge direttamente all’anima, fors’anche per il fatto di averla in se stessi, come dice Shakespeare. Metafore cromatiche, ma anche icone indeterminate e «atomi erranti», e perfino sintesi geometriche, queste opere recenti di Umberto Albanese, nel loro infinito colore, dapprima ci fanno percepire il suono interiore della forma (soprattutto astratta), quindi ci portano alla sua comprensione e infine all’allusione di quest’ultima alla figura in una sorta di «visione» creativa quanto mai totale e coinvolgente.
…Je crois que ce qui nous frappe d’abord en regardant les oeuvres de Umberto Albanese, c’est la luminositè des coleurs, leur vivacitè,leur intensitè. Des coleurs qui rappellent la Mèditerranèe, le soleil, les bleus e les ocres de sa terre, la règion del Pouilles, le talon de la botte italienne qui s’allonge le plus au sud dans la mer…
…La pittura diviene quindi quasi magica con un’analisi intima dell’animo umano più profondo e fantastico. Dalla nascita del mondo le fiabe hanno sempre rappresentato la parte più intima e innocente della personalità, che l’artista in questo caso riesce a tirare fuori ed esprimere nella sua pittura vibrante di colori forti e accesi coma la curiosità di un fanciullo.
Nelle opere di Albanese, risultano evidenti i richiami ad artisti quali Paul Klee e Sebastian Matta, mentre in alcuni lavori si intravede il pensiero surrerealista legato però a un modo di dipingere elegante e raffinato……Umberto Albanese riesce a fare quello che a molti artisti non riesce.
Guardare ed esprimere nell’arte il mondo, come solo gli occhi di un bambino possono fare. Il colore fortemente utilizzato dall’artista narra e vibra quindi in geometrie non preimpostate, ma libere di scorrere a piacimento su tutta la superficie della tela, lasciando alla curiosità di chi guarda l’opera di esprimersi liberamente in un vortice di memoria, tra il sogno e la realtà.
Umberto Albanese (b.1950) does not paint to please the viewer; rather, he understands him. Both a cardiologist and a painter, Albanese explores the link between the skin and the flesh, the being and the heart. His paintings, and even more the ideas behind them, inspire poetic language. In the catalogue that accompanied his exhibition at the Palais des Nations in February 2001, the texts, written by art critics and friends, are highly lyrical.
Most of them describe how Albanese represents the invisible of the inner world, pointing to the origins of symbolism, and referring subtly to Paul Klee. Albanese explains that one of his main sources of inspiration is the way people look at his work. His motivation is that of someone who believes that human suffering has an inner cause, and depicts the complexity and darkness of this suffering by using a background of deep shades of blue and purple.
On this background he either etches or draws symbols, mostly triangles, squares and stripes. The yellow spot that appears in most of his works symbolizes hope, the light that announces the end of pain.
Albanese does not look to other artists to discover what or how to paint. His experience as a medical scientist gives him enough material to work with. Central to life, and this is where he sees the link between his art and his profession as a cardiologist, is the heart both the physical and the spiritual centre of the body. Thus it is not surprising that the heart, in its symbolic form, often appears in his work.
It was only after a long period of inner struggle that the artist was able to make these lyrical abstract paintings. While working in a figurative style over a long period, painting beautiful landscapes and still lifes, Albanese started to search for an art form that would go beyond reality, and be intuitive and simple. By distancing his work from the figurative he tried to find an expression for his inner world.
Only then, he has explained, was he able to express his compassion for humankind. Today, the complete absence of the human form in his work is the result of his conviction that the representation of the physical form alludes to reality, but has no deeper spiritual meaning. As he puts it:
The symbols and archetypes often look at me and lead me into the inner folds of my soul. They recall most hidden emotions and suggestions. They translate and transmit the purity of the mind as well as the sensations of a universal language: that of the human soul, free of any dead weight and hypocrisy.
Cette peinture nous trouble, parce qu’elle nous touche en un endroit de l’àme dont nous ignorions jusqu’à I’existence. Elle nous révèle quelque chose de nous, que nous ne saurions pas nommer. Cette émotion tient d’abord à l’usage qu’Umberto ALBANESE fait de la couleur. Cet artiste italien, né en 1950 dans les Pouilles, développe en effet des chromatismes radicalement personnels, qui paraissent venir de très loin (on y verra probablement le role de la remémoration ou bien de l’inconscient agissant). Ses couleurs modulent des inflexions de métal et de miei qui n’appartiennent qu’à lui.
Il est vrai qu’ALBANESE s’aventure sur des terrains peu fréquentés, osant de peu courantes recettes picturales: on le voit mêler l’huiie a l’acrylique, appliquer des papiers moulilés sur isorel, user de la poudre de marbre et de la feuille d’or, experimenter des pates de cuivre, de platine ou d’argent. Il se permet aussi une étonnante variété de factures, d’ambiances; et d’esthétiques presque.
Tantôt ses tableaux, doués pour le coup d’un rendu d’émaux, se cornposent - un peu à la facon de KLEE - d’un étagement de signes et de motifs aux formes dessinées; tantot, à l’inverse, l’artiste s’engage sur une piste résolurnent informefle, quasiment tachiste. Dans ce second cas (le plus fascinant, de notre point de vue), ALBANESE fait preuve d’une vision ample et d’un lyrisme indéniables: l’organisation apparemment aléatoire des taches et des traits se trouve en réalité scandée par des zones dont l’intensité colorée tranche sur le reste du tableau. Une clarté immanente sembie ainsi sourdre depuis le fond de la toile et lui conférer une rythmique, une pulsation. La musicalité de ces cuvres séduit immanquablement.
Umberto Albanese sbarca di nuovo nella Grande Mela… Sotto i riflettori venti opere di grandi dimensioni - eseguite nel corso degli ultimi due anni - che, al di là della loro appartenenza a specifici e definiti cicli (da “Frammenti di sogno” a “Dream”, a “Maree”, a “Costellazioni”, a “Quaderni”, a “Ninfee”, e quindi a “Spartiti”), si caratterizzano tutte per la loro impronta informale e per il particolare e personale uso del colore. Quasi che quelle “metafore cromatiche”, di cui si è scritto in un passato non troppo lontano, avessero acquistato una sorta di rinnovata concretezza, grazie anche alle sue continue ricerche sui materiali, sulla luce e sul colore. Facendo sì che le opere, già nel loro iniziale strutturarsi, possano manifestare-nella maniera più ampia e coinvolgente- quella loro particolare condizione di “confine”, dando al cromatismo e alla sua rarefatta consistenza la capacità di far attualizzare nella contemporaneità il riaffiorare tumultuoso di pensieri reconditi e di memorie lontane…
In Umberto Albanese c’è il desiderio di estrapolare dal colore tutto il suo fermento espressivo e materico. Laddove il gesto si abbandona alla foga dell’esecuzione è la grazia suprema del movimento ad assicurare quell’apparenza di facilità che organizza le forme in un insieme armonico. Laddove, invece, si concretizza in cromatismi densi e grumosi è la piacevolezza degli accordi tonali a suscitare quell’altissima poesia emozionale che cattura l’immaginario con il suo incanto visivo.
…il pittore, fedele a quei concetti di “emersione” e di “materializzazione” che, da sempre, gli consentono di rendere concreti e percepibili i pensieri e le memorie, costruisce per questa sua mostra londinese - aperta sino al prossimo 10 febbraio - dall’emblematica denominazione “A magical journey within” un rincorrersi di pagine, quasi fossero un diario (la costanza di quel formato quadrato ed il suo ripetersi con progressione) che si muovono tra addensamenti cromatici e luminosi e successive rarefazioni formali, facendo riemergere quella funzione narrativa già altre volte evidenziata e presa sotto esame.
Riconfermando quel suo costante muoversi tra sogno e realtà , anche quando quest’ultima sembra assumere nuove conformazioni e strutture, consentendo al critico e quindi allo spettatore - perfino quello più disattento - di interagire individuando riferimenti, metafore ed allusioni, e - perchè no morganatiche visioni. D’altra parte quel “desiderio di estrapolare dal colore tutto il suo fermento espressivo e materico”, di cui scrive nel suo breve testo Marzia Moschetta, lo possiamo leggere nel susseguirsi di cromatismi e spessori, che si manifestano quali isole di sogno sulla distesa dell’opera. Facendoci intendere come la facilità espressiva sia solo apparente, essendoci alla base una scelta organizzativa fatta di impaginazioni e di rapporti quasi musicali. Nel superamento del senso dell’accadere, e nella precisa e definitiva volontà di prendere lo spettatore, contemporaneamente, dalla parte del cuore e dalla parte del cervello…
C’entrano il corpo e c’entra anche il cuore, se è per questo. Magari non li vedi più ma ne avverti la presenza, perché qui c’è il corpo che batte, e una fisicità dislocata, differita, eppure intensamente attivo con le sue pulsioni e pressioni e tutte le sue vitali e sentimentali vie di scorrimento… Perché ho visto i quadri di Umberto Albanese, le sue dense stesure, e là affiorano i segni come da sotto un soffocamento di materia irruente. Ho avuto la sensazione del sangue che ci scorre dentro, che a noi scorre nelle vene. Una cosa fisica, prima che culturale o estetica: fisica. Non so se mi spiego. Questa è la scena del corpo che, non visto, si gioca una sua segretissima partita con il proprio fondo immaginario e romantico, duro a morire, a vedersi estinto per mano digitale o virtuale. Ristabilisce un contatto primario, semplice, essenziale con gli elementi. Vogliamo essere precisi: la terra, l’acqua, il fuoco, per quel che di stratificato, di fluido o di incandescente c’è nei quadri di Albanese (A, la prima lettera). L’assenza di una realtà oggettiva è la presenza di una corporeità pura?
Risposta che la prende larga: ecco uno che si distacca dagli altri per impastare, manipolare materie, per dare un senso al mondo, per estrarne una qualche bellezza. E’ un atteggiamento radicato. Infatti, stiamo ai fondamentali, per favore. Perché all’inizio, prima di tutto, ci sono quelle decorazioni fatte con le dita sulle pareti d’argilla di certe grotte dei Pirenei francesi. Soltanto la pressione delle dita, capite? E’ prima di tutto: una pressione tattile, lasciare orme, tracce di sé, non farsi dimenticare… Quello è l’inizio. Radici, appunto. Chi fa arte ricomincia ogni volta daccapo. Non c’è mica evoluzione, come, che so, nella scienza, o nella medicina. In arte si riparte sempre da zero, e l’uomo pittore che agisce oggi risveglia con un solo gesto la sterminata schiera dei suoi predecessori. Diteggia argilla. O acrilici, cemento, quarzo, sabbia, come propone Albanese. Fa lo stesso no? Perché ogni volta si apre e si chiude il cerchio.
Lo sapeva bene Kandinsky: iniziava un’era con il tratto impetuoso e leggero di un bambino, con la stilizzazione dinamica di un cavallo da caverna preistorica. Chiudeva a modo suo il cerchio. E lo sapeva soprattutto Klee. La storia dell’arte avrebbe anche potuto fare a meno di lui e non sarebbe cambiata granché, eppure quello lì è stato una specie di profeta destinato a rimanere sempre presente. Albanese credo ne sia consapevole. Non dimentichiamo Klee come lui non ha dimenticato nulla, non un fiore, un sasso, né una stella, e perché la sua pittura ancora ci intona con la musica dell’universo e con l’esplorazione dei sottosuoli. Klee resta la nostra sonda preferita. La più riuscita. Se il cosmo ha un cuore, un centro, lui lo ha toccato. E anche questo Albanese lo sa. Lo sente, benché nella sua pittura tu non possa elencare fonti precise, e anche quelle cui sembra ispirarsi siano semplici conduttrici della sua energia creativa. Comunque: Albanese conosce il valore e la molteplicità dei segni, la possibilità di leggere un dipinto come il pentagramma di una musica vista, di far risuonare i colori come note, dandogli estensione temporale e inesauribile capacità di evocazione fantastica. Tutto ciò mi dà l’idea come di un contrappunto rispetto all’epoca che viviamo. Ed è questo.
Se ci pensi sono quasi cent’anni secchi che ci separano dalla scoperta dell’astrattismo. Dalle risa che al principio lo accompagnarono, dalle emozioni profonde che, al suo stato nascente, seppe suscitare. Nel corso del secolo è diventato linguaggio comune e, da fiume in piena che era, un rivolo sempre più piccolo fin quasi a rasentare la secca. Quella integrità di visione aveva il suo inevitabile contraccolpo, l’insidia dell’usura, la fatalità di un esaurimento… Chi oggi fa dell’astrattismo assume dei tratti aristocratici indiscutibili. E’, lo voglia o no, divergente rispetto a un’era che ci soffoca, ci intossica con il suo culto delle immagini, con questa emorragia, questo versamento inesauribile di figure, sboccato da una ferita così poco cauterizzabile che perfino certi crimini (uno stupro, un’impiccagione) sembrano accadere quasi al solo scopo di essere rappresentati. Magari anche soltanto ripresi con un cellulare. Il desiderio epocale che inquina gli esseri e le cose è quello di diventare icone. Quindi, anche storicamente, ci si chiede: che fine ha fatto l’astrazione, l’antidoto a tutto ciò? Tempi duri per l’invisibile, l’accennato, il bisbigliato, per ciò che non vuole apparire e si ritrae. Per una creatività ostile all’idea di dover per forza uscire da un modem sbriciolando identità, infestando menti. Tempi impossibili per un’estroversione fatta a mano, per un gesto senza approdo, un’espressione senza faccia, un suono che non nasca da una bocca…
Albanese era figurativo. Dipingeva in un modo che mi ricorda Maurice de Vlaminck, immune dalla sua disperazione però, come da quella di un altro paio di “dottori” votati all’arte: lo scrittore Louis Ferdinand Céline e Alberto Burri. Dire, poi, ciao ciao al mondo, non è mica facile, anche perché, magari, pezzi di quel mondo lì, come detriti, come energie sopravvissute alla perdita del corpo te li porti dietro. Le tue Maree li lasciano sulla spiaggia… Comunque: artisti come Albanese ripetono al mio sguardo che occorrono spazi purificati, di decompressione. Spazi vuoti, là dove proprio un vuoto animato e abitato possa emanare la sua forza e, per paradosso, la sua pienezza. Questo lo sanno perfettamente artisti, scrittori e filosofi orientali. E credo che lo stesso Albanese non sia immune dal fascino che certi mistici linguaggi ideogrammatici irradiano, quando ci raccomandano il piacere, la bellezza di una scrittura dall’ornamentazione maltrattata, che quanto più risulta sgualcita, liberata e illeggibile tanto più tocca e risveglia la mente.
Questo è il regno dei gesti. Non delle parole. E ciò è originario, ci parla di fonti remote, con una decisione di linguaggio piuttosto eroica, assolutamente necessaria, paradossalmente attuale nella sua estrema rarità. Ci ripresenta le orditure e i lussi di una bellezza libera, non funzionale ad alcunché, non aderente direbbe Kant, uno che di estetica se ne intendeva parecchio. Ce la ripresenta nella sua variante bizantina: è una questione di nascita, di DNA a voler essere esatti, anche perché l’occhio di Albanese ogni volta dimostra di essere attratto da ciò che è prezioso, un bagliore, una stesura ben fatta, un incastonatura sopravvissuta, un mosaico che ha subito disfatte, che ha conosciuto l’azione del tempo, e adesso è in frantumi. D’altronde, in qualche zona del nostro cervello deve essere sopravvissuta alla civiltà-via-cavo la confidenza con uno specifico splendore italiano. Non so dirlo meglio, ma in questo momento mi viene in mente soprattutto un gesto: quello del setaccio, del cercatore d’oro…
Spazi culturalmente aperti. Nessun ordine precostituito. Non quell’ascetismo lì. Ecco, invece, la non geometria, l’idea che la pittura fluendo semplicemente possa architettare (perché c’è sempre una qualche struttura nei quadri di Albanese) le sue composizioni in modo non intellettualistico, ma naturale e musicale, come farebbe il vento sulle dune, il sasso gettato sopra uno specchio d’acqua, elaborando e modificando tracciati, percorsi e sciami di pennellate. Leggermente. Si tratta di un intervento docile sulle superfici: assecondare una forza che è vano imprigionare, criminale dimenticare. Ecco anche il quadro come campo d’azione e di gioco. Terra fertile. Quando arriva lì Albanese costruisce, perimetra, irriga l’habitat che lo accoglie. Pezzi di terra piuttosto mobili, che scorrono, si agglutinano, si addensano e poi tornano a sciogliersi riflettono la consapevolezza che non un atomo di un atomo di noi, del mondo, è uguale a ciò che era un istante fa. Andrò magari contromano ma, di fronte al senso di inutilità e vaghezza che la società su larga scala produce iniettando un’overdose di smarrimento negli esseri umani, l’immagine di uno che non si disperda, non navighi ma che si concentri su un pezzetto di terra tutto suo, che ne sveli la ricchezza coltivando e scavando, mi affascina.
Dunque cosa succede, qua? Perché puoi giurarlo, nei dipinti di Albanese accade qualcosa, nulla resta fermo, anche quando Umberto marca e riquadra più volte la superficie dell’opera. La sensazione è che ci sia sempre un transito, che qualcosa passi da qui a lì, toccando e attraversando confini. La stessa propensione di Albanese a muoversi, a estendersi per cicli, per serie, confessa al tempo stesso un desiderio di totalità e la cognizione di un movimento universale che in qualche modo va intercettato. Credi di assistere alla gestazione di una realtà nuova, singolarmente compatta e uniforme nei suoi ritmi, nelle sue variazioni su tema. Nel suo respiro. Respiro? Già. E mi spiego.
Guardatevi in sequenza (perché il mondo di Albanese, che si concatena, è un patchwork potenzialmente infinito, è un vasto paesaggio in sequenza) i cicli pittorici eseguiti a partire dalla fine degli anni ’90. E scegliendo tra i bei titoli: Frammenti della memoria, Percorsi onirici, Impronte di silenzi, Labirinti della memoria (e due!), Percorsi della memoria (e tre!!), Nebulose (cioè, splendore di macchie), Strappi, Spartiti (avevate mai pensato che le stratificazioni della terra profonda e della roccia fossero musica?), Maree (campiture sobrie, severe), Gigante rossa (manifestazioni di una luce incendiaria) Codice, e poi ancora, in un lavoro che diventa circolare, Spartiti... Ti accorgi che Albanese lavora su alcuni elementi ricorrenti che nelle singole serie isola e potenzia e nelle successive associa, o sembra dimenticarsene, per poi farli riapparire. Il cambiamento è apparente, l’opera, come fosse una sola, ruota, e urta come una falena attorno a una lampada, su alcuni fulcri fissi. Ma non è solo questo il punto.
Il punto è che se in un ciclo ti colpisce una materia calda, sfatta, come quella di un bruciamento, nel seguente si formeranno placche chiare e placate di zone di colore più tenue, un biancore rarefatto… E’ come un mantra, una ripetizione cadenzata, alternata (immettere ed emettere aria e voce), un ritmo che mentre si dilata, in fondo è chiuso in sé, concentrato unicamente su di sé. L’opera di Albanese ha un battito segreto, chiuso dentro, regolare… E poi dici che il cuore non c’entra.
Marco Di Capua che lo presenta in catalogo, proprio in occasione di questa mostra, ad un certo punto scrive: “Albanese conosce il valore e la molteplicità dei segni, la possibilità di leggere un dipinto come il pentagramma di una musica visiva, di far risuonare i colori come note, dandogli estensione temporale e inesauribile capacità di evocazione fantastica”, richiamando l’attenzione sulla capacità dell’artista nel compiere percorsi paralleli e contemporanei, analogici perfino pur nella loro apparente discordanza.
La rarefatta consistenza dei suoi dipinti, in gran parte nati e sviluppati all’interno dei cicli, tutti riconoscibili in scelte lessicali e linguistiche oltre che formali, che passa da un percorso legato ad un’emergenza di solidità materica ed esistenziale rappresentata dalla denominazione “crateri”, “codice”, “quaderni” e “strappi” alla coinvolgente attenzione verso quel mondo fluido cui alludono “maree”, “fondali”, “cascate”, sembra chiudersi nella maniera più personale e profonda, al limite di quel pathos cosmico e di quel naturalismo lirico, con le opere che si identificano in quelle definizioni più astratte. Definizioni che dalla “monade” ci portano alla “nebulosa”, alla “gigante rossa”, alle “costellazioni” ai “percorsi della notte” e all’ ”impronta di silenzi”. Spostandoci quasi all’interno di una letterarietà chiamata Majakovski, quello, per intenderci, che chiedeva se mai avessimo saputo suonare un notturno su un flauto di grondaie.
E sempre oscillando tra l’informale e l’astrazione, talvolta accumulando - l’uno sull’altra - colore e materia nel ripetersi anche di particolari e caratteristiche elementarità, più spesso con improvvise rarefazioni. Quasi pause musicali all’interno della scansione cromatica, facendoci compiere virtuosismi sul confine della pura emozione al limite, forse, di quel misticismo cui allude anche lo stesso Di Capua nel momento in cui rileva come lo stesso Albanese non sia immune dal fascino di certi linguaggi ideogrammatici, dalla loro bellezza ed ancor più dalla loro capacità di “toccare e risvegliare la mente” Ma anche il cuore, aggiungiamo noi.
Albanese è un maestro delle forme e dei colori, il suo mondo di sogni fantastici propone un’iconografia primitiva dove forme arcaiche si susseguono come in un paesaggio interiore. La sua pittura, che nasce dal principio della necessità interiore, come il critico Mimmo Di Marzio ha sottolineato, fa parte di quell’arte universale capace di parlare a mondi diversi.
E certamente parlerà alla gente ed alla cultura coreana dalla quale magari trarrà nuovi stimoli per quel dialogo interiore e col mondo, che contraddistingue la sua ricerca pittorica.
Umberto Albanese’s exhibition will be held at GALERIE PICI, October 12-October 30, 2007, and he shows his own paintings in natural and musical ways. Umberto Albanese is expressing the unrealistic imaginative world artistically and rhythmi -cally with his own breath. Umberto Albanese is simplifying his works to get creative energies in this exhibition.
We hope that you will have relaxation from having your busy daily life and welcome you to his world of the great continuity.
Come potremmo far rivivere te nostre agonie, momento per momento e come potremmo mai riuscire a dare toro seguito?
In nome della propria libertà di pensiero un artista precipita in un abisso di cui non conosce il fondo oppure vaga, risucchiato in un buco nero a una velocità portentosa. Stanco di una vita mondana, cerca di rifugiarsi nei piaceri puri che le opere d’arte gli possono procurare e si impegna nell’interminabile ricerca di una vita vera. Cerca una maggiore profondità nella sua esistenza, indagando il contrasto tra apparenza e sostanza oppure la loro complementarità.
La nostra costanza ci consente di salvarci dai molteplici rischi dei tanti errori e della confusione cui ci costringe l’insicurezza della nostra società; pur se ingenuamente spingiamo le nostre vite verso percorsi più faticosi, rinunciando ad altri più ambiziosi e meno impervi, riusciamo ad assaporare la felicità. Mi auguro che questa mostra possa consentire di comprendere a fondo l’atteggiamento e le scelte di alcuni artisti occidentali e ci consenta di andare al di là di ipotesi superficiali o di giudizi formali oppure di interpretazioni basate su valutazioni distorte.
Attraverso questa manifestazione potremo indagare se il linguaggio di un semplice pittore sia diretto oppure metaforico, potremo esplorare come lui esprima la stanchezza e il dolore delle nostre vite, la distanza tra i sogni e la realtà.
… Ricordiamo, a tal proposito, la frase pubblicata su queste stesse colonne poco più di due anni or sono, in occasione della sua più recente esposizione nel castello di Carlo V a Lecce, nella quale è contenuta la chiave di lettura di questa mostra coreana, non fosse altro che per il suo essere, al tempo medesimo, la conferma ed il superamento di una modalità creativa contemporanea e assolutamente personale.
Riteniamo, infatti, che l’aver rilevato, in quella sede, il suo muoversi “tra l’informale e l’astrazione, conferendo al gesto/segno un significato al tempo stesso linguistico ed emozionale”, sia stata non tanto una sorta di intuizione, quanto la giusta risposta ad alcune sollecitazioni fatteci da Albanese, e poste lì, tra i cromatismi materici e luminosi delle “Nebulose”, come segnali da seguire e guardare con attenzione ben oltre l’immediato pulsare di ogni aspetto aniconico.
Ecco, allora, che quel gesto/segno visualizza d’improvviso il suo essere parola e pathos, consente alla sequenza dei termini di costituirsi quale linguaggio, dando all’opera un’ulteriore e più ampia modalità di lettura e di fruizione.
Il tutto con precise ed inequivocabili citazioni letterarie, ma anche con segni illeggibili e non casuali, e cifre, nella direzione di un’altra modalità della comunicazione. Pittura/scrittura, quindi. Ma non solo. Nel coinvolgimento, questa volta, della memoria e della sua capacità di proiettarsi in avanti nella sequenza temporale.
Come, d’altra parte, leggere i versi danteschi (“e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende”), gli aforismi e le citazioni che Albanese ha inserito in gran parte delle sue opere recenti, se non come la necessità di “voler lasciar testimonianza di quanto accaduto e trascorso”. Tanto, in verità, ci disse, conferendo alla conoscenza e alla cultura un ruolo determinante da cui non poter più prescindere, passando dal significato al significante. Così, nel permanere dell’aspetto materico che gli è congeniale, il pittore/medico (due aspetti questi, di un’unica e personale artisticità) giunge a queste sue nuove soluzioni di particolare e rarefatta consistenza, costruite giocando sui toni terrosi e sui neri gestuali, rafforzati sovente da una sorta di dripping non del tutto accidentale, quasi a voler evidenziare quei tracciati tra passato e futuro che solo la memoria può costruire e definire. Nell’ambito della pittura, ma anche oltre.
La mostra antologica delle opere di Umberto Albanese (2000/2016) sostiene il connubio tra arte e scienza e definisce l’aristotelico dialogo tra le due esperienze.
L’arte secondo Aristotele è mimesi (imitazione); un’attività che non riproduce passivamente la realtà così come esiste in natura, ma la ricrea in una nuova dimensione di verosimiglianza.
Una comprensione dei fatti e una connessione di informazioni non logica, ma intuitiva,, un aspetto della conoscenza. Il cardiologo di Casarano si è avvicinato alla pittura in giovane età e fino al 1996 ha esplorato il campo figurativo.
In questi anni la svolta del suo percorso artistico pur essendo apprezzato per le sue capacità impressioniste, realizza coscientemente una latene insoddisfazione dei modi espressivi. Seguendo un istintivo bisogno di ricerca cromatica e materica, forte della profonda conoscenza dell’arte moderna e contemporanea, prova ad uscire dalla regola e affronta la tela con rinnovata passione e vibranti geometrie, risolvendo in spazi aperti, nuovi e arditi schemi creativi.
Così felicemente, approda all’arte informale e astratta. Al ritmo delle note che accompagnano le sue meditazioni, le esperienze oniriche e i percorsi introspettivi e intimisti fluiscono naturalmente nella pittura.
Assertori convinti dell’esistenza, della persistenza e dello sviluppo del dialogo tra arte e scienza (entrambe modalità di cognizione e di consapevolezza), anche all’interno delle leggi della casualità (le variazioni di Duchamp) e ben oltre qualsivoglia scelta in quanto tale, e nella condivisione d’intenti che ci connette all’artista oggetto/soggetto della nostra scrittura, riteniamo giusto far comprendere al lettore (annesso all’arte, e/o del tutto disgiunto da essa) le motivazioni all’origine di questa mostra antologica di Umberto Albanese (l’artista/medico a cui ci legano persistenti consuetudini, esercizi di lettura e plurime condivisioni, nell’ambito dell’arte e della formazione accademica, e non solo) che propone, nello spazio storico ed affascinante di Palazzo Vernazza nella città barocca, quanto immaginato/inventato/prodotto in quei tre lustri e passa trascorsi dal sorgere del terzo Millennio, ed ancor prima il senso e il significato del titolo conferito all’esposizione. Rammentando, come affermato da Maurizio Calvesi, esattamente trent’anni or sono, nel suo scritto “ARTE E SCIENZA” per la mostra omonima all’interno della XLII Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, che “... il nodo più profondo tra arte e scienza risiede proprio nella visio mundi, di cui ogni epoca ha la sua, e se ogni epoca ha la sua visione del mondo, vuol dire che si tratta di qualcosa che evolve storicamente”. Il che vuol dire guardare all’essere, all’esistere, e quindi riandare, per dirla con Platone, agli stoicheia, ovvero agli elementi naturali costitutivi del mondo, rammentando che Empedocle fu il primo a proporre (la base della sua gnoseologia) i quattro elementi della tradizione ellenica: fuoco, terra, aria e acqua, definendoli quali radici (rhizai) dalla cui unione/separazione –assolutamente casuale, ma determinata dalle due forze cosmiche che sono l’amore e l’odio, e secondo un ciclo senza fine (quello che sarà poi il concetto lavoisieriano della continua trasformazione)- conseguono la nascita e la scomparsa di ogni cosa. Ma, non dimenticando (e come farlo!) l’esistenza dell’etere, il quinto elemento (pémpton stoicheion) introdotto da Aristotele (e successivamente indicato dagli alchimisti come forza vitale dei corpi), quale fusione armonica dei quattro. Costituente la natura delle sfere celesti, e come tale eterno ed immutabile.
Tutto ciò premesso, si comprende come nella nostra lettura delle opere in mostra e quindi del percorso costruito, oggetto d’attenzione e di pertinente e condivisibile proposta, si sia partiti dall’identificazione, nella pittura di Umberto Albanese, di quattro elementi/modalità a priori quali il colore, il gesto, il segno e la parola, unificati (non fosse altro che per il non poter prescindere da essa) dalla materia, al tempo medesimo natura preconcetta e definitiva. La quintessenza, secondo Aristotele.
Entriamo ora nel significato dell’esposizione, dichiarando che, superata l’ipotesi romantico-idealista che tra arte e scienza non ci sia comunicazione (l’intendere, secondo Alexander Gottfried Baumgarten a metà del Settecento, il termine estetica quale autarchica “scienza della sensibilità”; quindi per Immanuel Kant, nell’Estetica trascendentale proposta nella “ Critica della ragion pura”, il differenziare l’estetica dalla logica e l’intuizione dal concetto, pur potendosi verificare la vicendevole integrazione tra intuizioni e concetti per dar luogo alla sintesi conoscitiva; e infine la tesi crociana secondo cui l’arte è conoscenza intuitiva e la sfera estetica rimane autonoma rispetto alla logica), il nostro tempo non può prescindere dalla necessità di avvicinare sempre più l’una all’altra e l’altra all’una, auspicando, pur essendoci finalità diverse, l’intensificarsi di quel passaggio reciproco e reversibile già da tempo, però, esistente. Sovvenendoci che Susanne Katherina Langer nella sua Estetica simbolica afferma che l’intuizione, caratteristica dell’arte (ma, specifica anche del pensiero scientifico) non è irrazionale, ma procede per altre vie che non la logica.
Ma ritorniamo alla mostra e al suo percorso espositivo, a ben guardare sviluppato in linea con quel modello di spazio/tempo che rimanda alle geometrie di Hermann Minkowski e alla relatività ristretta, riconoscendo ad ogni opera un preciso riferimento spaziale ed un altrettanto preciso riferimento temporale, ma rimescolando di continuo il tempo e lo spazio, invertendo l’inizio/partenza con la fine/arrivo di qualsivoglia itinerario/percorso fisico e/o spirituale, e conferendo a tutti i lavori presenti la status della contemporaneità.
Fatto questo che ci spinge ad una sua doppia lettura.
La prima, rigorosamente cronologica costruita sul recupero/citazione, fors’anche parziale, dei testi critici che ci accadde di elaborare in occasione di precedenti rassegne/incontri con i lavori di Albanese, talvolta quale curatore, talaltra quale critico militante; la seconda strettamente legata alla struttura dell’antologica articolata e sviluppata sui due piani del Palazzo Vernazza seguendo un itinerario cronologico inverso partendo dall’attualità dell’oggi per giungere agli inizi del terzo Millennio nella conferma di quel reiterato proporsi per temi che costituisce la preponderante metodologia progettuale ed operativa dell’artista.
Ritrovare l’interpretazione e riflettere, ecco l’incipit della nostra prima analisi. Che prende l’avvio da quell’incontro di quasi quindici anni or sono, quando su La Gazzetta del Mezzogiorno del diciannove giugno duemiladue, in occasione della mostra “Opere recenti” nella Galleria leccese “Il Grifone” (a cui farà seguito due anni dopo, sempre nella stessa Galleria, “Dream: il viaggio, la storia”), richiamavamo l’attenzione sul fatto che “il colore fortemente utilizzato dall’artista narra e vibra quindi in geometrie non reimpostate, ma libere di scorrere a piacimento su tutta la superficie della tela, lasciando alla curiosità di chi guarda l’opera di esprimersi liberamente in un vortice di memoria, tra il sogno e la realtà”. Ed era sempre colore, quello dei “Labirinti della memoria” (2001) e de “Il viaggio di Orfeo” (2001), ma anche delle “Nebulose” (2002) e dei “Quaderni” (2002/2003), da intendersi quale modalità espressiva legata ad una sorta di naturalismo lirico ad alta persistenza a cui la materia, nel suo proporsi per frammenti o anche per segni/ferite/tracciati, definiva la superficie dell’opera come il luogo della pittura, tra rarefazioni continue ed improvvise condensazioni/accentramenti che andavano oltre ogni immagine possibile, reale, sognata e/o inventata. Ma è “Il vuoto ritrovato”, la personale al Patria Palace di Lecce del venti giugno duemilasette l’occasione per ritrovarsi con Umberto Albanese, reduce da peregrinazioni internazionali, e con le sue opere, quelle appartenenti ai cicli già nominati e quelle dei “Crateri” (2003), del “Dream” (2004), delle “Costellazioni” (2004), degli “Strappi” (2004), della “Monade” (2004/2005), della “Gigante rossa” (2004/2006), di “Butterfly” (2005), dei “Fondali” (2005), delle “Cascate” (2005), delle “Maree” (2005/2007), del “Codice” (2006), delle “Impronte di silenzi” (2006), degli “Spartiti” (2006/2007), e dei “Percorsi nella notte” (2007), nelle quali la materia e il colore, entrambi come liquefatti e magmatici, rimandavano a realtà concrete -tra fisica e geografia, tra astronomia ed astrologia-, a metafore variamente articolate, e ad azioni naturali contingenti e allusive (quel lavorare per variazioni impercettibili, come se alla fine le opere tutte fossero tessere/frammenti di un unico smisurato ed infinito dipinto, esploso da ricostruire, o in parte già ricostruito) che ci portavano a lasciarsi trascinare da una sorta di immediato pathos cosmico, consentendo al curatore Marco Di Capua di parlare di “spazi culturalmente aperti”, del quadro “come campo d’azione di gioco”, di “respiro” dell’opera e del suo “battito segreto, chiuso dentro, regolare ...”, e a noi di sollecitare la nostra mente e la nostra memoria a ritrovare collegamenti e allusioni, oscillando “di continuo tra soggettivo ed oggettivo, facendo sì che l’emotività possa quasi riconciliarsi con se stessa, giocando lungo le direzioni della musica...”, come scrivevamo su La Gazzetta del Mezzogiorno di quello stesso giorno. E quindi, tre anni dopo, lungo quel pulsare della materia alla radice di “Nebulosa”, la personale del sette novembre duemiladieci che curammo nella spazialità dilatata del Salone Maria D’Enghien del Castello di Carlo V a Lecce, nel rimescolamento di terra, acqua, aria e fuoco (ritornano gli stoicheia e Aristotele) e nel ripopolarsi/rianimarsi del vuoto tra colori sovrapposti e iridescenze altamente evocative. Oltre che quanto pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del ventisette marzo duemilatredici in occasione di “Untitled” la rassegna nel Chung-A Art Center di Seoul (poi riproposta, essendone curatore, nella Imperial Art Gallery di Casarano il ventinove giugno dello stesso anno), facendo esplicito riferimento a quel suo costante ”muoversi tra l’informale e l’astrazione, conferendo al gesto/segno un significato linguistico ed emozionale” e a quel progressivo allargamento delle modalità di lettura e di fruizione riscontrabile nelle opere –anche quelle più recenti- caratterizzate dalla trasformazione del segno in parola e da chiare e leggibili citazioni, oltre che da un esercizio di pittura/scrittura sempre più evidente e manifesto, da intendersi quale il trend della sua futura ricerca artistica.
Passando all’altra fase dell’analisi, rieccoci alla realtà della mostra, proposta, come scrivevamo, nell’inversione della cronologia, e nella stesura di un continuum nel quale lo spazio e il tempo fossero contemporaneamente percepiti già nelle singole opere, oltre che nella globalità del percorso espositivo. E non possiamo non partire che dai recentissimi “Collage” (2015), per poi andare a ritroso, per stanze e per temi, e tema dopo tema, fino ai “Labirinti della memoria” (2001), per rilevare come nella totalità delle proposte la materia, nel suo molteplice manifestarsi e negli inserimenti, rivendichi la sua capacità aggregante, consentendo al colore, al gesto, al segno e alla parola di disporsi secondo quei presupposti che ribadiscono come l’arte sia norma e trasgressione, e come l’inosservanza della regola sia una pregiudiziale vincolante per il manifestarsi dell’arte, e (anche) requisito essenziale per la consapevolezza scientifica.
Nell’osservazione delle singolarità degli stoicheia, ben oltre la molteplicità delle opere e il loro proporsi per cicli, ecco il percepire l’energia creativa del colore (la gamma cromatica che risulta essere quanto mai completa ed articolata, talvolta nell’emergenza allusiva di un vermiglio che rimanda al sangue, talaltra sui toni caldi terrosi, talaltra ancora nella liquidità del blu e/o nella forza assoluta dei neri) e il suo andare oltre ogni immagine figurale nel rincorrersi di tracciati e percorsi che alternano la leggibilità della pennellata e della costruzione all’immediatezza dell’astrazione e del movimento secondo progressivi e successivi tempi osmotici che svelano costruzioni, dripping e addensamenti. Ma anche quel frammentarsi che identifica il colore con il gesto, istintivo e immediato senza possibilità di replica ma quanto mai equilibrato nella forma e nell’impaginazione dell’opera che diviene pura emozione ed esasperato lirismo al di là da ogni possibile metafora, oltre che il suo/loro (materia/colore/gesto) successivo definirsi come segno, disposto per autonomie e per sequenze, sovente su cifre, lettere e stilemi ricorrenti, che rimandano alla texture come forma significante, in quell’alternanza tra ordito e trama che è anche ed essenzialmente progetto oltre che intuizione, facendoci percepire la musicalità del ritmo (quanta affinità tra musica e pittura in Umberto Albanese, quante memorie e quante logiche sequenzialità tra l’ascoltare ed il fare!). Portandoci, poi, nella direzione del sogno e della memoria tra simbolismi e magia, conferendogli -al segno- la capacità di trasformarsi in parola e quindi in linguaggio, tra citazioni letterarie profonde, aforismi e trascrizioni di tempi musicali (adagio, andante, lento, allegretto, allegro moderato, prestissimo), riconoscendo all’artista la capacità di indurre infinite e continue emozioni rinnovando (al pari dello scienziato) gli strumenti della comunicazione e suscitando il consenso, e all’opera gli stigmi della pittura/scrittura -e quindi di quell’essere sul confine dell’oltre e dell’evocazione, nel silenzio e nella facondia, nella centralità e nel limite, nella rarefazione e nell’addensamento, nel fluire e nel restare- oltre che una lettura polisemica.
Come d’altra parte è giusto che sia nella compiutezza di quella visione aristotelica, tra cuore e cervello, tra razionale e irrazionale, tra arte e scienza, che abbiamo preso a modello e a chiave di lettura dell’evento.
Quella di Umberto Albanese è una storia apparentemente inconsueta ma che una analisi più attenta rivela essere quasi da manuale. A molti, infatti, potrebbe sembrare non comune che un professionista formatosi e impiegato in tutt'altro settore possa dedicarsi all'arte, per di più con la stessa dedizione – e aggiungerei caparbietà – con cui procede da anni nella sua professione. A ben guardare si scopre che il suo è un caso tutt'altro che isolato. Nella storia dell'arte, specialmente in quella del Novecento, non mancano esempi analoghi. Il più vicino, se non altro per analogia di formazione e lavoro, è quello di Alberto Burri. Come il maestro umbro anche il nostro artista è medico, cardiologo per la precisione, formatosi all'Università di Pavia, ma a differenza del primo non ha mai rinunciato alla medicina che egli ritiene non antitetica all’arte ma complementare. «La passione per la pittura è nata con me ed è vissuta parallelamente alla mia professione di medico» ha dichiarato l’artista, «con la medicina curo il corpo, con l’arte lo spirito».
Come è avvenuto a Burri anche per Albanese la formazione scientifica ha favorito il maturare di una specifica propensione alla ricerca, innanzitutto sui materiali, associati e indagati nella sostanza più che nella forma, al fine di ottenere texture sempre nuove, in un cambio continuo di epidermide per la sua pittura. Ma le analogie tra i due non si fermano qui. L'attitudine sperimentale di cui si diceva lo ha indotto, ancora come Burri, ad abbandonare presto la figurazione per approdare all’astratto, un universo sconfinato in cui vagare per sfuggire alla tirannia del reale. Un cambiamento maturato osservando le opere di Van Gogh, Cezanne, Itten, Klee, Rothko, nei musei delle maggiori capitali europee. A risentirne non è stato solo il suo paesaggismo, ancora di matrice tardo-impressionista, ma anche gli impasti cromatici che, liberatisi dalla rigidità della visione, si sono fatti via via più pastosi e densi. Da contemplativo il suo sguardo è divenuto introspettivo rivelandogli il fascino di un insieme sconfinato di temi e soluzioni non formali. L’evocazione del paesaggio si è trasformata in rappresentazione dell’interiorità.
Cardiologo di professione Albanese è dunque pittore per vocazione. Non una formula fatta ma una spinta verso l'ignoto, in direzione di una necessità interiore non pienamente spiegabile in termini anatomici o psicologici. L'arte è dimensione superiore che sfugge al controllo persino di chi la produce, è viatico all'introspezione e questo è un dato ampiamente documento dalla storia dell'arte, specialmente quella degli ultimi due secoli, dal Romanticismo in poi. Albanese si è inserito da tempo in questa lunga tradizione e lo ha fatto scegliendo la via dell'astrazione. Classe 1950, egli ha iniziato a dipingere in modo consapevole e sistematico nei primi anni Ottanta, al termine della sua formazione scientifica. Dopo l’esordio figurativo, utile ad apprendere da autodidatta regole del disegno e della composizione, ha intrapreso la via della non rappresentazione, o meglio della rappresentazione dell'invisibile. L'astrazione è subito divenuta per lui strumento per guardarsi dentro, termometro di ansie e aspirazioni, rilevatore di crisi personali e sociali. Colore e segno sono diventati gli strumenti attraverso cui dare corpo alle gioie e ai dolori della vita. L'animo umano riceve colpi, subisce traumi, incamera delusioni e soddisfazioni che la pittura registra. Le forme, ultimi residui di una rappresentazione, si sono dissolte progressivamente mentre il dominio del colore si è fatto assoluto, concretizzandosi in impasti materici.
Per quanto precocemente lasciata, la fase figurativa tuttavia non è trascurabile in sede critica, rappresentando un esordio importante per leggere l'evoluzione del suo linguaggio. Solo alla luce di essa, infatti, la successiva fase astratta si rivela essere per Albanese non una scelta di comodo – circostanza tutt’altro che rara, specialmente in quanti non hanno una formazione specifica in ambito pittorico – ma un bisogno interiore. Un cambio di direzione evidentemente ponderato, dettato non da una presunta ed erroneamente supposta facilità d’esecuzione, ma da quella necessità di “curare lo spirito” che Albanese avverte forte e preponderante, imprescindibile nel suo lavoro di artista. Da medico sa bene che per curare qualcosa bisogna conoscerlo. E allora quale mezzo migliore per indagare lo spirito se non ricorrere al linguaggio aniconico? Privo di una forma propria ma al tempo stesso racchiudibile in molteplici immagini, lo spirito non può essere rappresentato ma solo metaforizzato attraverso il fenomenico. Ma ad Albanese non sono mai interessate le metafore visive. Egli fin dal principio ha puntato all'essenza, alla natura reale dell’interiorità. Se nei secoli passati l’approccio simbolico-figurativo era l'unica via concretamente percorribile per rappresentare l’interiorità, sul principio del Novecento Kandinsky, Klee, Mirò e pochi altri hanno insegnato ai posteri a guardarsi dentro senza il bisogno di attingere alla realtà concreta per esprimersi. Come la musica anche la pittura ha acquisito la piena consapevolezza della specificità del suo linguaggio. Da allora linee, colori e forme non sono più i mezzi per raggiungere una rappresentazione ma sono essi stessi la rappresentazione. Facendo suoi gli insegnamenti dei grandi Albanese, non senza turbamenti o fatica – ma mai ripensamenti o inversioni di rotta –, ha intrapreso la via dell’astrazione all’interno della quale si è subito posto con un atteggiamento di continua revisione. In questo processo di perenne riesame dei modi espressivi la forma si è tramutata in segno.
Se negli anni Novanta, periodo dei suoi primi lavori non figurativi – coincidenti peraltro con le prime occasioni espositive – le sue tele appaiono campi aperti in cui forme triangolari o quadrangolari fluttuano su distese più o meno uniformi o sono allineate in teorie dagli andamenti sghembi, rinviando ad una dimensione mnesica (Percorsi della memoria, 1997; Frammenti della memoria, 1998; Le stanze della memoria, 1999) o onirica (Il sogno del navigante, 1997; I sogni della Luna, 1998; Il giardino di cristallo, 1998; Il viaggio di Orfeo, 1999; Percorsi onirici, 1999), nel corso dei primi anni Duemila ogni residuo formale di dissolve in favore di un’impronta più segnica, di impasti più grumosi e materici, di colature e increspature, conseguenze di un’accresciuta attenzione alle potenzialità dei materiali che lo conducono verso impasti pittorici più grumosi, autenticamente materici. I titoli, spesso di ascendenza poetica, sostengono la lettura dell’opera potenziandone l’afflato evocativo. La derivazione della sua maniera dall’informale gestuale non deve però trarre in inganno rispetto al controllo della stesura cromatica in questa fase, che è sì istintiva ma non casuale, in una mobilità della mano e del colore sempre controllata.
Pur proseguendo le linee tematiche precedentemente intraprese, d’ora in poi generatrici non più di singole opere ma di interi cicli, nei lavori degli anni Duemila si fanno spazio inedite accezioni cosmiche (i cicli Costellazioni del 2004, Maree del 2005-2007, Gigante Rossa 2004-2006; Nebulosa, 2002) e un’attitudine scritturale, premonitrice di un discorso ancora oggi in fieri, testimoniata all’epoca da certi segni minimi tracciati sulla tela, simili a virgole e croci, e ancor più dai titoli (i cicli Quaderni del 2002-2003 e Codice del 2006) alcuni dei quali rinviano alla musica (i cicli Impronte di silenzi e Spartiti, entrambi del 2006-2007), che nelle teorie kandiskijane è assunta a sorella della pittura astratta. È di questo momento una pittura materica e satura che avanza per stratificazioni febbrili, per avvicendamenti di slanci segnici, in cui è ben leggibile l’adesione a modelli di una pittura libera da riferimenti figurativi. Nello spazio della tela la pasta pittorica si addensa fino ad aggregarsi in grumi materici che la luce evidenzia, rivelando una ricerca ancora di matrice gestuale ma approdata ad un ordine superiore, tutto mentale: una realtà parallela a quella esperibile, non confrontabile se non con se stessa. Esuberanza contenuta, ordine strutturale, tensione cromatica controllata sono alla base delle sue composizioni, frutto di un esame analitico della costruzione materica e di un dinamismo vitale che scaturisce da ogni impressione del reale.
Nel secondo decennio del Duemila i piccoli segni del decennio precedente lasciano spazio a veri e propri testi che s’impongono sulla superficie pittorica per il loro portato grafico più che per quello semantico. Una variazione sul tema che impone cambiamenti anche al colore che si fa meno squillante e più intimo, con una predominanza di grigi e bruni, con talune accensioni di rosso. Un cromatismo non più urlato ma sussurrato, idoneo scenario per i messaggi che compaiono nello spazio pittorico, divenuto pagina di diario su cui annotare pensieri e confessioni. È questo l’antefatto più immediato ai lavori realizzati da Albanese nell’ultimo quinquennio, inclusivo del periodo pandemico, e presentati oggi in questa nuova personale al Must di Lecce, per la quale si è scelto il titolo “CARDIO grafie”, riferimento alla sua professione medica ma ancor più alla necessità espressiva interiore, al suo bisogno di registrare passioni, sensazioni e turbamenti. Nuove opere in cui Albanese procede per derivazioni e revisioni della forma, che anziché sfociare in ulteriori prevedibili sperimentazioni verbo-visive o ridefinirsi in figura, se ne allontana ulteriormente accostandosi all’ordine superiore della geometria senza tuttavia entrarvi integralmente. Le sue opere recenti appaiono dominate da una pacatezza che si fa perfetto controllo degli equilibri e delle forme.
Benché l’astrazione si confermi per l’autore specchio di una condizione esistenziale, manifestazione libera del vissuto interiore, priva di condizionamenti oggettuali e descrittivi, a queste nuove opere si lega un’ulteriore riflessione della pittura come materia sensibile, capace di registrare – e non banalmente riprodurre – gli accadimenti della realtà intesi. La propensione scritturale comparsa nelle opere del decennio precedente si riconosce nel primitivismo segnico di Elementi ancestrali, non afferente quello di Picasso e compagni, ma attinto direttamente alla fonte, alla grotta di Porto Badisco. Da tempo Albanese avverte il fascino del linguaggio ideogrammatico, che gli appare tanto più poetico quanto oscuro, tanto più affascinante a livello mentale quanto illeggibile. Proseguendo l’analisi della recente produzione ci si imbatte per singolarità relativa rispetto al pregresso in Sipari. Qui la ricerca di una cadenza ritmica nel segno verticale e l’alternanza di colori chiari e scuri, seppur volutamente imprecise e immediate, ricavate di getto, suggeriscono una regolarità e un rigore finora inediti nella ricerca dell’artista. Il contrasto tra le fasce genera una sensazione di forza dialettica, sprigionando un’energia vitale intensa.
Nelle serie Congiunzioni e Riverberi, invece, l’uso della carta a cui è sovrapposto il colore dà vita a superfici vibranti e porose, in cui l’occhio si perde tra pieghe e piccole increspature, meandri sottili in cui il colore si annida creando localizzati addensamenti. Mentre in Riverberi la contrapposizione tra due rettangoli di colore nettamente differente, se non contrario, chiama in causa la poetica degli opposti come ricerca di equilibrio e armonia tra dentro e fuori, cosmo ed interiorità, in Congiunzioni la linea rossa è segno che divide, che infrange con la sua brillantezza e la sua carica espressiva la piana serenità della composizione. La stessa banda rossa ricompare in Archivio della memoria, dividendo la texture pittorica, densa e materica, da quella scritturale di una pagina di libro rivelata in trasparenza da un nero incapace di saturazione. Separando e raffrontando una zona all’altra, la linea rossa si traduce nuovamente in un confine tra interiorità ed esteriorità, introspezione e narrazione.
Pur rivelando un’intima coerenza con tutta la produzione di Albanese, un discorso a sé stante merita il ciclo Omaggio a Leonardo Da Vinci, in cui il consueto stile informale del pittore cede il passo a rigurgiti figurativi, parafrasando i multidisciplinari codici leonardeschi. Piccolo formato, inserti verbali, tratto dinamico e poche ed essenziali note cromatiche, rendono le opere del ciclo – sette in tutto – simili a rapide annotazioni: un taccuino scompaginato in cui è evidente il ricordo della plurima creatività del genio toscano.
Le opere recenti di Albanese sono lavori connotati da uno studiato equilibrio di pesi e forze, dipinti pervasi da una arcana e ancestrale spiritualità. Emerge in esse un percorso coerente di studio e revisione dell’astrazione, non limitata a mera combinazione di linee e colori ma insostituibile viatico di introspezione. L’esuberanza cromatica delle fasi precedenti è ora placata, immersa in una vasta zona d’ombra che senza sminuire i valori tattili della sua pittura ne accresce il portato intimista e concettuale. Una nuova stagione dell’artista, forse la migliore della sua maturità, in cui sintesi cromatica, concisione del segno e spazialità rivisitata in chiave informale, si confermano gli ingredienti essenziali della ricerca di questo artista sempre impegnato a rinnovare e rinnovarsi.
Carmelo Cipriani